Cineasta di indiscutibile talento ed ex professore di filosofia al MIT per i suoi importanti studi su Martin Heidegger, Terrence Malick è stato ed è tuttora uno dei maggiori autori del cinema statunitense contemporaneo. Un regista enigmatico e controverso, noto per il suo perfezionismo maniacale, che da The Tree of Life (il suo film più rappresentativo) in poi ha proposto un cinema sempre più vago e sfuggente, capace di suscitare il più incontenibile entusiasmo o la più severa disapprovazione tanto nel pubblico quanto nella critica.
Attraverso la continua ricerca di nuovi approcci estetici e narrativi alla settima arte, il texano ha costantemente manifestato una necessità indomabile di indagare e comprendere il senso profondo dell’esperienza umana – dalla vita alla morte, dalla religiosità all’amore – sondando con l’eleganza di un pittore e una riflessione teoretica densa e stratificata il mistero dell’esistenza e le domande che da sempre l’accompagnano.
La filmografia di Terrence Malick ha una scansione temporale piuttosto inusuale, tanto che tra la primissima parte della sua carriera (cioè fino a Days of Heaven, il suo secondo lungometraggio) e la seconda (da The Thin Red Line in poi) ci sono quasi vent’anni di ‘inattività’, nei quali Malick si è dedicato a lavorare a un ambizioso progetto mai realizzato (Q, le cui idee sarebbero poi confluite in The Tree Of Life e Voyage Of Time insieme a parte del girato) e a scrivere sceneggiature perlopiù inedite. Abbiamo così deciso di ripercorrere e condensare in una breve monografia le tappe fondamentali di un percorso artistico così fuori dal comune – dall’esordio folgorante con La Rabbia Giovane al più recente Song to Song passando per il criticatissimo Knight of Cups – allo scopo di inquadrare al meglio quel suo complesso linguaggio filmico che nel corso degli anni ha sentito l’esigenza di stravolgere e rinnovare, film dopo film, fino alla rarefazione quasi bressoniana delle ultime opere.
LA RABBIA GIOVANE (Badlands, 1973)
Dopo aver realizzato un primo cortometraggio (Lanton Mills, 1969) e aver contribuito come sceneggiatore ad alcuni road movie e pellicole di stampo western, Terrence Malick – che all’epoca aveva appena compiuto trent’anni – esordisce alla regia nel 1973 con La rabbia giovane, una sorta di gangster movie (il film presenta i topos della coppia criminale senza però inserirsi appieno nel genere) ispirato a un fatto di cronaca nera avvenuto in America negli anni ‘50. Al centro del racconto, una giovane coppia di innamorati interpretati dagli esordienti Martin Sheen e Sissy Spacek, che si lancia in una fuga d’amore tra le praterie del Sud Dakota e Montana per sfuggire alla monotonia di una vita insoddisfacente e priva di novità; alle loro spalle una scia di sangue e morte.
Malinconica e silenziosa, l’opera prima del regista statunitense è già un lungometraggio di rarissima bellezza; un film dall’impronta squisitamente esistenziale anziché sociale (come presupporrebbe invece il soggetto) che ben tratteggia la realtà provinciale degli States più selvaggi e si distingue nel trambusto della New Hollywood di quegli anni per un sofisticato contrasto visivo tra drammaticità dei fatti e una messa in scena preziosa e raffinata ma già matura e rigorosa. Perché se ancora Malick è “costretto” nei dettami registici della grammatica cinematografica più classica, già si intravedono quei tipici movimenti di macchina e alcuni splendidi campi lunghi alternati a dettagli macro della natura circostante, che negli anni a venire andranno a sovrastare l’intero edificio filmico dell’autore. Anche per questo motivo resta uno dei pochi lavori del regista apprezzati tuttora dai suoi detrattori più accaniti.
Ne La rabbia giovane, inoltre, sono già ravvisabili alcune delle tematiche più care al regista, che nei film successivi diventeranno veri e propri marchi di fabbrica: l’amore per la natura accogliente e segreta (i due protagonisti si rifugiano infatti in una radura in mezzo al bosco), il voice-over introspettivo a cui è affidata la narrazione dei fatti e un certo senso di sospensione e spaesamento nei personaggi, alieni in un mondo che non li comprende.
I GIORNI DEL CIELO (Days of Heaven, 1978)
A seguito del successo inaspettato del primo lungometraggio (film indipendente girato a bassissimo costo), Malick ricevette un budget ben più corposo per realizzare quella che finora rimane la sua opera più ‘terrena’ e ‘compatta’ dal punto di vista estetico e narrativo.
I giorni del cielo, girato quasi interamente durante la cosiddetta golden hour e ambientato nel Texas di inizio novecento, racconta di un triangolo amoroso sviluppatosi nella campagna rurale di un ricco proprietario terriero, tra la fatica del lavoro manuale e l’idillio bucolico della vasta piantagione di grano. Anche qui violenza e sopraffazione verso il prossimo porteranno il protagonista (Richard Gere, all’epoca esordiente) a dover riconsiderare il proprio posto nel mondo.
Al di là del soggetto probabilmente ispirato al dodicesimo capitolo della Genesi biblica (che racconta la fuga in Egitto di Abramo e Sara), ciò che più convince e affascina è quel senso di malessere e inquietudine che Malick riesce a comunicare efficacemente attraverso la dimensione spaziale vastissima dell’impianto scenografico, nella quale i vuoti vincono i pieni e le cui strutture architettoniche (di chiara ispirazione hopperiana) sono stanziate eteree e spettrali all’orizzonte, sotto una luce crepuscolare che quasi preannuncia la successiva deriva tragica del film.
Ancora una volta non è il regista a spendersi nel giudizio categorico delle azioni dei suoi personaggi (come è stato e sarà coi film successivi) ma è la natura stessa a soggiogare chi dei suoi figli agisce in maniera eticamente condannabile. D’antologia in questo senso la simbolica sequenza che descrive l’invasione delle locuste nel campo di grano: un crescendo sempre più lugubre di tagli di montaggio e immagini funeste culminante con l’incendio distruttivo che annichilisce tutto il paesaggio prima e l’animo dei protagonisti poi. Sublimato da una fotografia di notevole pregio, calda e caliginosa, e dalle composizioni di Ennio Morricone, I giorni del cielo conquistò un Academy Award e il premio alla miglior regia in quel di Cannes. Oggi può essere considerato come l’ultima tappa nella realtà ancora concreta e “immanente” del primo periodo malickiano.
LA SOTTILE LINEA ROSSA (The Thin Red Line, 1998)
I primi due film degli anni ’70 portarono a Malick un successo di critica inaspettato, tanto che la sua importanza come regista crebbe a livelli esponenziali in breve tempo. Passarono però quasi due decenni prima che l’autore texano ritornasse a dirigere un’opera per il grande schermo, nei quali si dedicò alla stesura di varie sceneggiature e soprattutto allo sviluppo di Q, un progetto singolare che resterà incompiuto e il cui materiale confluirà invece in The Tree of Life e nel documentario Voyage of Time.
Il punto di svolta nella carriera del regista e di riflesso nel suo modo di concepire il linguaggio cinematografico si ha così verso la fine degli anni ’90 con la realizzazione de La sottile linea rossa; un war movie atipico e suggestivo, che ancora oggi rimane in assoluto una delle migliori pellicole di genere mai realizzate.
Basato sul romanzo di James Jones (da cui però si distanzia in molti punti) questo terzo lungometraggio affronta più visceralmente il conflitto interiore dell’uomo con se stesso e con la natura rigogliosa e lussureggiante che lo circonda. È sull’isola di Guadalcanal nel 1943 – durante la seconda guerra mondiale – che attraverso un cast corale di attori tutti di spicco, Malick affronta il tema delicato della morte e dell’insensatezza della guerra, impegnandosi più nell’indagine filosofica dell’esistenza umana piuttosto che incedere freneticamente nella rappresentazione dell’azione bellica. Le sequenze più concitate (e tecnicamente sbalorditive) si alternano così a quelle più introspettive e contemplative, in cui un voice over polifonico (nei primi due film la voce narrante era una sola) ci restituisce i pensieri e i desideri reconditi dei soldati al fronte in un canto poetico struggente e sconfortante che ricorda l’oversoul di anime di emersoniana memoria. L’obiettivo di Malick non è mostrare vincitori o vinti, ideali giusti o sbagliati (come capita spesso in opere di questo tipo) ma renderci consapevoli di come tutti – americani e non – siano vittime di quello stesso male atavico e incomprensibile che la guerra porta inevitabilmente con sé. Ultimo lavoro del regista ad ottenere consensi unanimi da parte della critica, La sottile linea rossa venne candidato a sette premi oscar e vinse l’Orso d’oro a Berlino nel 1999.
THE NEW WORLD – IL NUOVO MONDO (The New World, 2005)
Il discorso filosofico prettamente trascendentalista emerso nel precedente lungometraggio trova il suo prosieguo spirituale nell’opera che in realtà è stata anche il minor successo commerciale del regista: The New World.
Girato quasi esclusivamente sulle coste e nell’entroterra della Virginia (luoghi d’origine della vicenda narrata) il film è incentrato su alcuni fatti storici avvenuti nell’America del 1607, periodo nel quale i coloni europei entrarono in contatto e poi in conflitto con la tribù dei Powhatan. Fulcro del racconto è però la storia del leggendario amore tra l’esploratore inglese Smith (Colin Farrell) e la bellissima Pocahontas (Q’orianka Kilcher), indigena e figlia del capo tribù della zona.
Come nei film precedenti l’attenzione di Malick cade innanzitutto su quella natura incontaminata e primigenia che l’uomo occidentale sembra teso ad alterare e a corrompere per i propri scopi malsani e spesso ingiustificati. Il paradiso edenico di quei luoghi è, come sappiamo, destinato ad una caduta rovinosa causata dagli europei, ma nel conflitto storico tra mondi antitetici sono le due figure prima citate a trovare un’armonia inedita, mai più replicabile, di un amore idealizzato e talvolta immaginifico. Le sequenze che vedono protagonisti i due amanti – diversi l’uno dall’altra eppure complementari – sono di un lirismo romantico così appassionante e intenso che ne fa perdere ogni connotazione eccessivamente sentimentale ed eleva invece la coppia in una dimensione più eterea e sognante. La macchina da presa danza sui loro volti, indugia sui movimenti delle mani e si sofferma sovente su quei piccoli gesti apparentemente insignificanti che compongono l’idillio poetico della loro unione. In quest’ottica il cinema di Malick raggiunge un equilibrio stilistico di notevole grazia formale: dai suoni e rumori preminenti della natura, vera colonna sonora del film; alla ricostruzione storica accuratissima e imponente dell’impianto scenografico, tuttora stupefacente.
Troppo spesso sottovalutato e considerato di relativa importanza nella filmografia del regista, The New World è in realtà uno dei migliori film dei primi anni duemila e uno dei capitoli più significativi della carriera artistica di Malick, alla ricerca qui di un senso profondo d’amore e libertà.