Anita (Francesca Inaudi) è un’esperta enologa di successo, sposata con Salvo (Fabrizio Ferracane) e in attesa della prima figlia. Ma quando Gioia – questo il nome che le è stato paradossalmente dato – viene al mondo, qualcosa cambia nella protagonista: non più donna ma solo madre, non più amante ma solo moglie, guarda quel fagotto in rosa e non riconosce più lo stesso amore che ha provato in nove mesi di gravidanza. Chiusa in un paesino siciliano dove tutti dispensano consigli non richiesti, Anita si sente affogare in un mare di incomprensione, serbando rancore in quel senso materno che proprio a lei è stato negato e che ora la costringe a ripensare al suo rapporto con la madre assente.
Parlare di depressione post parto non è affatto facile; farlo al cinema ancora meno. Farlo al cinema e per giunta in Italia è una sfida quasi impossibile. L’incapacità di amare il proprio figlio, il sentirsi inadeguata, sbagliata e condannata non è una malattia: è una bizza. “Cosa potrebbe volere di più una donna? Per cosa altro è fatta una donna? Una donna è Donna quando diventa madre”. Questa, più di tutto il resto, è l’oggettivazione del corpo femminile. Così la depressione post parto, molto più comune di quanto si possa credere, diventa un fantasma, una leggenda metropolitana, qualcosa che non può esistere perché la Natura non lo ha previsto, è sgradevole, scomoda. È un tabù. E in Italia, dove la retorica della famiglia si spreca, è omertà.
Se il tema era stato già trattato nel 2011 in Quando la Notte di Cristina Comencini e nel 2013 in Tutto parla di Te di Alina Marazzi, con Ninna Nanna il cinema italiano si spoglia di quella drammaticità che ormai sembra dover essere l’unico ingrediente per portare a casa un buon film. La semplicità invece si impone sullo script che scorre naturalmente, con pochi intoppi e nessuna ridondanza, riuscendo con delicatezza a disegnare un personaggio, interpretato dalla Inaudi con sicurezza e coraggio, in continua evoluzione e che non si disperde mai nei 112 minuti di durata della pellicola. È impossibile non capire cosa stia succedendo ad Anita, identificarsi con lei, rimproverare Salvo per la sua cecità, odiare quelle donne che non ri-conoscono le difficoltà di diventare madre, sentirsi oppressi da un mondo che ci vuole felici eppure non lo siamo. Ma ecco che all’identificazione con la protagonista, i registi Enzo Russo e Dario Germani mettono in opposizione la loro regia asciutta, ma non banale. In quei dettagli ripresi di striscio, in quelle pause fatte di inquadrature vuote, in quelle attese silenziose sulla protagonista, si insinua in noi la stessa paura che il marito prova guardandola, quella che qualcosa possa succedere da un momento all’altro, che Anita non voglia stare bene. Il dramma che ci aspetteremmo lascia a tratti addirittura spazio al thriller, ventilato sin dalle prime battute del film, quando, in quella Sicilia che culturalmente deve tanto all’antica Grecia, per le strade sentiamo narrare la storia di Efesto, figlio di Era, ripudiato dalla madre per la sua bruttezza, e quella di Edipo, incestuoso e assassino. Storie di madri ingiuste e di figli condannati, perfettamente cucite a quella di Anita, ma senza sembrare estranee, neanche quando i registi impongono una linea onirica al loro racconto.
Alla luce di così tanta immedesimazione, quello che più stupisce è il fatto che questa sia una produzione totalmente al maschile. Diretto da due uomini, sceneggiato da ben quattro, Ninna Nanna è un film fortemente empatico nei confronti di una protagonista che vive e affronta problemi non universali, ma che sono esclusivamente appannaggio delle donne. E se Anita non trova aiuto nella nonna e nella migliore amica, tantomeno nella madre alcolizzata con cui ha solo un rapporto telefonico, lo cerca e lo trova in un gruppo di anziani signori, capeggiati dallo Zio Luigi, che ha il volto di Nino Frassica e l’anticonformismo di chi ha vissuto nel bigottismo di marito siculo poco accontentato e non vuole più farlo.
E allora questi uomini alla regia e alla sceneggiatura ci vogliono dire che accanto ai miti di Efesto e di Edipo, c’è anche quello di Tiresia (guarda caso il nome dell’assistente di Anita), l’uomo condannato a vivere sette anni da donna per aver ucciso un serpente femmina e che ritornerà al proprio genere solo dopo aver capito le sofferenze che appartengono all’altro sesso.
Ninna Nanna arricchisce il cinema italiano di un argomento taciuto anche e soprattutto fuori dalle sale cinematografiche, calibrando bene i toni drammatici che non appesantiscono la pellicola e la leggerezza che la esalta, in un delicato messaggio di consapevolezza e di invito alla solidarietà.
Ninna Nanna: senza retorica, il tabù della depressione post-parto (recensione)
Di Elena Pisa
La riuscita pellicola con Francesca Inaudi e Nino Frassica si cimenta con un argomento decisamente spigoloso con delicatezza e forza.