Se dovessimo tracciare un filo comune che unisce tutto il cinema di Pablo Larrain non faremmo fatica ad individuarlo nel concetto di “rappresentazione”. Rappresentazione (o non rappresentazione) innanzitutto della verità storica, spesso filtrata attraverso le narrazioni di piccoli e grandi personaggi della nostra epoca. Non è un caso che Larrain abbia intrecciato più volte la vita privata con la storia pubblica, il potere sulle persone e quello sulle cose: lo fece con Tony Manero prima e con Post-Mortem poi, fino a quel bellissimo lavoro di commistione totale fra finzione e realtà che è NO – I giorni dell’arcobaleno. Lo stesso avviene con Jackie, primo film in lingua inglese per il regista cileno, prodotto – fra gli altri – da Darren Aronofsky e che è stato presentato in concorso alla 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura. Ora Jackie arriva in edizione blu-ray grazie a CG Entertainment, arricchito di un interessante making of e di un’intervista a Natalie Portman.
La storia filtrata
Basato sullo script di Noah Oppenheim, il film racconta i retroscena di un articolo pubblicato il 6 dicembre del 1963 dalla rivista Life firmato da Theodore H. Whit: For the President Kennedy: An Epilogue. Il giornalista aveva prodotto il pezzo dopo un’intervista con Jacqueline Kennedy presso la sua villa di Hyannis Port nel Massachusetts, una settimana esatta dopo il tragico assassinio di John Fitzgerald Kennedy a Dallas. Un “epilogo” che funge da incipit, che innesca i flashback dentro ai quali viaggia il film e che rimane sullo sfondo per tutta la narrazione, dando vita ad un riflesso sulla realtà che vuole essere, allo stesso tempo, ufficiale e non ufficiale, filtrato e non filtrato. Già nel confronto con il giornalista (Billy Crudup) Jackie (Natalie Portman) si sdoppia dunque in modo ambiguo in corpo narrante e corpo narrato, alimentando inesorabilmente quella “costruzione del mito” di cui il film di Larrain vuole essere sguardo indagatore.
La moglie e la First Lady
Natalie Portman è bravissima nella sua onnipresenza: la sua Jackie è meno icona e più essere umano, è un corpo che intaglia lo schermo soprattutto nei primi e primissimi piani. Dopotutto la compagna di JFK è anch’essa un filtro per rendere l’idea del potere – la grande “Camelot” kennediana – qualcosa di digeribile e sostenibile per il pubblico e la storiografia ufficiale. Mentre Larrain ibrida privato e pubblico, presente e passato, complicando ulteriormente la linearità narrativa del film, Jackie/Portman imbastisce il fascino del potere con la stessa funzione del mezzo televisivo con cui la First Lady aveva grande dimestichezza. Come in NO – I Giorni dell’arcobaleno, in cui il prezzo da pagare per liberarsi dall’oppressione della dittatura di Pinochet era uno slancio sognante e “allegro” fin dentro il fascino dell’american way (e della sua manipolazione dell’immagine), allo stesso modo Jackie è motore pulsante di questa tendenza alla “falsificazione salvifica”, alla bugia a fin di bene, alla generazione ultima di senso là dove conta solo il pragmatismo politico e presidenziale. Il maestoso funerale di Stato di JFK, voluto e ostentato come un esercizio di agiografia, potentissima quanto inutile, è solo la costruzione più alta architettata dalla First Lady, una donna fin troppo consapevole della simbiosi tra finzione e realtà: “arriva un punto in cui le persone di cui leggiamo sono più reali di quelle che ci sono a fianco” confessa a un certo punto Jackie. Il filtro mediatico come storiografia parallela che incrocia sia le tensioni intime della moglie di un Presidente assassinato – e adesso ridotta a reliquia pop – sia quelle pubbliche e politiche di una ex-First Lady che ne deve intelaiare l’immortalità più classica, quella di un imperatore commemorato dal suo popolo.
Un Larrain più regista e meno autore
Mentre le musiche di Mica Levi (già bravissimo in Under the skin) continuano a salire intense e poi a scendere rovinosamente (un po’ come la parabola dei Kennedy) e il lavoro sui costumi di Madeline Fontaine (candidata agli Oscar) impreziosiscono l’immaginario della Camelot immortale, Larrain procede dritto per la sua strada: indaga il concetto di rappresentazione della realtà utilizzando il genere biografico per piegarlo al proprio approccio narrativo così come di recente aveva fatto con un altro (anti) biopic meraviglioso quanto ambiguo, Neruda, che seguiva le vicende del grande poeta cileno. Ma mentre in Neruda pesavano come macigni riflessioni intellettuali che lo hanno reso un progetto autoriale splendido ma senza facili vie d’uscita, con Jackie Larrain, forte di una sceneggiatura non sua, si concede il lusso per lavorare sulla messa in scena in modo più spettacolare, puntando su un’estetica visiva del tutto nuova per lui e sfoderando acrobazie registiche (si pensi all’assassinio di JFK) che raramente il suo cinema dissemina in questo modo evocativo.
Ma anche in questo compromesso necessario tra racconto del (e nel) mainstream che va a spasso con un’indagine del potere, Larrain non tradisce mai la sua idea di cinema che lo ha reso oggi uno dei più grandi registi del panorama contemporaneo. Il suo è ancora è un tentativo di rappresentare ciò che la storia e le sue interpretazioni non sono capaci di fare: arrivare ciò ad una verità oggettiva, indiscussa e condivisa. Un tentativo che però non si risolve mai, resta sospeso e a volte schiacciato dalla schizofrenia di quelle stesse vite che ne sono suo malgrado protagoniste. La poetica della irrappresentabilità rimane dunque sovrana e Larrain rivela, anche in questo film, tutta la fascinazione (ma anche l’inganno) della narrazione cinematografica.